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Hikikomori. La sparizione come risposta alla società dei non vedenti

“Da un bel po’ di tempo non esco di casa con qualcuno, non ho più contatti umani, non mi sento più con nessuno, a parte con i miei genitori, con i quali ho un rapporto molto difficile, specialmente in questi ultimi tempi.” (Cit. hikikomoriitalia.it)

“Ci sono stati eventi che hanno favorito la mia caduta, ero spesso oggetto delle battute degli altri, forse non proprio bullismo, ma quasi. Ero deluso dal sistema scolastico, dai professori. Appena ho compiuto 18 anni ho scelto l’autoesonero” (Cit. lab.gedidigital.it)

100mila. Basta un numero per porre immediatamente l’attenzione sui casi di hikikomori in Italia, un fenomeno che si sta diffondendo in modo sempre più capillare nella Penisola e che affonda le sue radici nella terra del Sol Levante, alla quale deve l’incomprensibile nome con cui è stato classificato. Tradotto alla lettera vuol dire “stare in disparte” e viene utilizzato per definire proprio chi sceglie di ritirarsi dalla vita sociale per periodi che vanno da qualche mese a diversi anni, scegliendo come rifugio la propria camera, spesso in compagnia di un PC, del proprio cellulare o comunque di uno schermo che continui a fare da finestra sul mondo.

E se in Italia l’allarme sembra già alto, in Giappone le cifre sono di portata esponenzialmente più elevata, arrivando a sfiorare il mezzo milione di abitanti. Il fenomeno sembra colpire maggiormente i giovani tra i 14 e i 30 anni, prevalentemente di sesso maschile; si sviluppa maggiormente nelle società avanzate caratterizzate dai regimi capitalistici e per lo più nelle famiglie con un alto livello di scolarizzazione. Fattori che messi insieme aiutano certamente a delinearne le cause più superficiali – la pressione sociale, l’alto livello di aspettativa da parte delle famiglie, accompagnate dal senso di competizione tipico dei sistemi neoliberistici – ma che tuttavia non sono in grado di esaurirne il quadro patogenetico: un quadro che andrebbe certamente analizzato in modo molto più approfondito, del quale un articolo di qualche riga non può che definire i contorni, ma che può, allo stesso tempo, offrire degli utili spunti di riflessione.

A partire dall’analisi del fenomeno stesso: ora li chiamano hikikomori, ma prima di loro c’erano stati i NEET (Neither in Employmnet, nor in Education or Training); poi ci sono le malattie alimentari, le cui vittime sono prevalentemente le adolescenti, o i fenomeni di autolesionismo. Ogni malattia ha certamente bisogno del suo supporto e di un adeguato trattamento psicoterapeutico, ma senza voler banalizzare, quello che certamente accomuna tutte queste forme di malessere è una profonda depressione che si sviluppa di volta in volta in diverse forme, legate alla storia di ognuno, al contesto, al background familiare, ma anche al periodo storico in cui si diffondono. Malattie delle quali, quindi, il contesto sociale e le pressioni derivanti dall’esterno giocano certamente un ruolo importante, ma è riduttivo imputare alla società la loro principale causa. Attribuire alla tecnologia la nascita di una problematica di questo tipo, porterebbe a pensare che basta staccare la connessione per uscirne. Ma come spiega Marco Crepaldi, autore del libro “Hikikomori. Giovani che non escono di casa”, nonché presidente e fondatore dell’associazione Hikikomori Italia:

“Internet, i social, i giochi online, nel caso degli hikikomori non sono causa dell’isolamento (…) I genitori che tolgono il computer a questi ragazzi sbagliano, sperano che magicamente escano di casa, ma non è così. Senza pc si buttano sul letto e non fanno niente.”

Ascrivere a un preciso fenomeno o a una tendenza la nascita di un problema è una soluzione certamente consolatoria, poiché darsi delle risposte semplicistiche offre l’illusione di poterlo risolvere nel giro di poco tempo, ma forme di malessere di questo tipo non sono certamente risolvibili con risposte spicciole: il problema è molto più profondo di quanto si creda e solo un adeguato supporto psicoterapeutico può aiutare a venirne alla radice.

Eppure, una possibile strada da percorrere sembra offerta dalle testimonianze dei giovani stessi. Dalle loro esperienze, dai loro pensieri. Dal loro cercar di raccontare perché abbiano scelto l’isolamento. Raccontano di problemi di riconoscimento della loro identità più profonda, del loro essere individui uguali ed estremamente diversi l’uno dall’altro.

“Il fatto è che durante gli anni delle superiori ho riscoperto varie passioni che oramai non consideravo più come tali (letteratura, cinema, musica ecc.), provando a diventarne partecipe non solo come fruitore, come già provavo a fare durante la mia infanzia. Ma avevo sottovalutato la mia incapacità di studiare per un fine che non sia esclusivamente quello di soddisfare un forte desiderio di curiosità, non ho mai potuto concepire altri “metodi” di studio. Per cui sino ad ora ho frequentato soltanto due lezioni, e il fatto di non essere riuscito a parlare con nessuno ha riattivato il mio sentimento di solitudine ed estraneità. Ho cambiato tre psicologi in circa 6 anni, ma nessuno mai è stato in grado di mostrarmi un’alternativa di vita concreta adatta al mio carattere, o almeno di farmi scoprire qualcosa su me stesso che già non sapessi”.

Ha 20 anni l’anonimo autore dell’eloquente richiesta d’aiuto pubblicata sul sito dell’associazione Hikikomori Italia: parole che raccontano ben di più di un semplice disagio esistenziale, e che richiamano l’ormai nota questione dei bisogni e delle esigenze di cui non si parlerà mai abbastanza. Parla di passioni, di desiderio di conoscenza, di curiosità. E abbiamo detto che non può certo ascriversi a una società capitalistica lo sviluppo di una patologia del genere, ma forse, al pensiero malato che l’alimenta sì: una filosofia atta a eliminare qualsiasi sfumatura, pensiero e sentimento caratterizzi l’identità di ognuno appiattendolo al ruolo di mero consumatore, e costringendolo all’ossessiva ricerca di un benessere materiale che elimina qualsiasi altra sfera della propria individualità.

“Conoscendo le storie di centinaia di ragazzi in isolamento sociale, mi sono reso conto di come molti di loro siano “castrati”: avevano un’attitudine, una predisposizione, un interesse, una passione o un talento che però non coincideva con quello che la società si aspettava da loro e sono finiti per sopprimerlo. Questo li ha portati nel tempo a perdere interesse in qualsiasi obiettivo nella vita, semplicemente perché l’obiettivo non era loro, ma gli è stato indotto, talvolta imposto.
La scuola in questo processo di svuotamento esistenziale ha grandi colpe, perché molto spesso, invece di valorizzare le singole predisposizione e i singoli talenti, finisce per standardizzare, incanalare, plasmare. 
Se vogliamo ridurre l’abbandono scolastico dobbiamo cambiare il sistema alla radice, renderlo flessibile rispetto all’incredibile eterogeneità umana, intercettare l’interesse e l’attitudine, stimolare il pensiero critico e la motivazione intrinseca verso una disciplina, che sia la matematica o la recitazione, la storia o la programmazione web, la filosofia o lo sport.
In altre parole: adattiamo il sistema alle persone e non le persone al sistema”.

È ancora Marco Crepaldi a sintetizzare in poche righe quella potrebbe essere una possibile strada da percorrere. Non è la società dell’apparenza, né tantomeno la competizione. Non è la tecnologia, né tantomeno la mancanza di idee: i cosiddetti mali delle società contemporanee hanno un’unica matrice, che risiede nell’annullamento dell’identità individuale, e con essa di tutto quel bagaglio di conoscenza, di ricerca su se stessi, in altre parole di esigenze necessarie al suo sviluppo. Un continuo svuotare di contenuto quel contenente che ci propongono come unico aspetto di una realtà invero molto più complessa.

Un non voler vedere che genera un disagio esistenziale in chi ha bisogno di risposte di altro tipo. Una cecità contagiosa, che spesso desta altre forme di patologia in chi non viene infettato.

“Forse un giorno si arriverà a conoscerne la ragione (…) Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo. Ciechi che vedono, ciechi che pur vedendo, non vedono.” (Josè Saramago)

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